(Rinnovabili.it) – Si chiama “fitodecontaminazione” e letteralmente prevede di risanare terreni inquinati da metalli pesanti utilizzando semplicemente ciò che è già presente in natura: le piante. La notizia del progetto, su cui da tempo stanno lavorando i ricercatori dell’Istituto di biofisica (Ibf) del Cnr di Genova che hanno impiegato girasoli, mais e brassica (una pianta della famiglia dei cavoli), come sistemi di disinquinamento, è stata pubblicata sull’Almanacco della Scienza del Cnr e ha già suscitato una certa curiosità per le sue possibili “applicazioni” future su larga scala. Piante “mangia metalli” che potrebbero riuscire nell’impresa più difficile: decontaminare da metalli altamente inquinanti territori devastati dall’azione umana.
“Le tecniche utilizzate fino a oggi, con elementi chimici “– ha spiegato Franco Gambale, direttore dell’Ibf del Cnr di Genova – hanno limiti oggettivi sia per i costi di bonifica delle aree interessate, sia per gli effetti successivi al trattamento: perdita della fertilità e altre gravi alterazioni di natura chimica, fisica e biologica, tali che le aree inquinate rimangono inutilizzate per decine di anni”. La fitodecontaminazione invece “è un processo di purificazione naturale in quanto sfrutta la capacità delle piante di assorbire elementi e composti dal suolo per poi concentrarli nelle parti mietibili (fusto e foglie). Le piante in questione, se opportunamente trattate con sostanze dette chelanti, che servono a rendere estraibili i metalli inquinanti, funzionano come pompe che operano a energia solare, in grado di assorbire dall’acqua e dal terreno non solo i sali minerali necessari per la propria sussistenza, ma anche elementi tossici minerali e/o organici”.
Una doppia valenza positiva per l’utilizzo di queste “piante mangia metalli” perché, una volta conclusa la loro funzione depurativa, vengono raccolte e incenerite a bassa temperatura, in modo da evitare la reimmissione degli agenti inquinanti nell’atmosfera. “La biomassa ottenuta – ha ricordato Gambale – può essere utilizzata per generare gas da impiegare per la produzione di energia e i residui minerali possono essere riciclati o inglobati, per esempio, in matrici cementizie. Le ceneri possono infine essere smaltite in discariche attrezzate a costi di gran lunga inferiori rispetto a quelli necessari per lo smaltimento del suolo, in considerazione del minor volume del materiale contaminato. Con alcuni accorgimenti derivati dai risultati della sperimentazione – ha poi aggiunto il direttore dell’Ibf-Cnre – riteniamo sia possibile un miglioramento della metodica che potrebbe consentire di ridurre il tempo di decontaminazione a circa 20 anni. Un risultato apprezzabile se si considera che gli approcci chimico-fisici tradizionali sono certamente più veloci, ma costosi e per nulla ecosostenibili”.
“Curare” la terra con i girasoli, la nuova sfida del Ibf-Cnr: "
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