Le mani della Cina sull’Africa

Le mani della Cina sull’Africa:

Negli ultimi cinquant’anni i rapporti commerciali tra Cina e Africa sono aumentati in modo vertiginoso. Si è passati da un giro d’affari di 12 milioni di dollari del 1950 ai 115 miliardi del 2010. L’espansione verso il continente nero, però, rientra in un progetto economico più ampio: conquistare il mercato dei paesi in via di sviluppo. Negli ultimi due anni, infatti, il colosso orientale ha dirottato verso quelle nazioni una somma di denaro maggiore di quella stanziata dalla Banca Mondiale.


C’è da preoccuparsene? Forse, sì. La diffidenza verso Pechino nasce da varie ragioni: “c’è chi ritiene che i cinesi non abbiano principi morali e che si disinteressino della tutela dei lavoratori, che trascurino i diritti umani e le regole democratiche del paese con il quale fanno affari”, spiega Indra de Soysa direttore del Globalization Programme dell’Università norvegese NTNU (Norwegian University of Science and Technology). C’è poi chi teme che gli equilibri politici mondiali possano incrinarsi sotto il peso di tutte le armi vendute dai cinesi a paesi non proprio filo occidentali. E, infine, c’è chi sospetta che dietro gli interessi economici della Cina ci siano ben pianificate intenzioni colonialiste. Cosa ci sia di vero in tutto ciò ci aiuta a scoprirlo un articolo di pubblicato su Sapere.


 


[…] A partire dalla fine degli anni Ottanta i rapporti tra Pechino e l’Africa sono entrati in una fase di marcata dinamicità. Alcuni dati aiutano a comprendere la rapidità con cui nel volgere di pochi anni si sono intensificate le relazioni economiche tra la Cina e i paesi africani.


Per quanto riguarda i flussi commerciali, mentre il valore delle esportazioni cinesi nei paesi africani è salito da 2,4 miliardi di dollari (USA) nel 1995 a 50,8 miliardi di dollari (USA) nel 2008, quello delle esportazioni africane nel mercato cinese è cresciuto da 1,4 miliardi di dollari (USA) nel 1995 a 55,8 miliardi di dollari (USA) nel 2008 (5). Per quanto nel 2009 il commercio complessivo tra Africa e Cina abbia registrato una flessione, attestandosi a 90 miliardi di dollari (USA) (con una diminuzione delle esportazioni cinesi in Africa più marcata del calo delle esportazioni africane in Cina), dopo Stati Uniti e Francia, la Cina è diventata il terzo partner commerciale dell’Africa.


Il rapido aumento dell’interscambio commerciale tra Cina e Africa non manca di sollevare una serie di problemi. Se da una parte le esportazioni africane nel mercato cinese tendono costantemente a superare le esportazioni cinesi nel mercato africano, l’Africa esporta per la maggior parte materie prime (energetiche e minerarie) mentre la Cina esporta principalmente prodotti manufatti. La forte domanda cinese, che ha contribuito all’aumento dei prezzi delle materie prime sul mercato internazionale, ha avuto effetti positivi sulle entrate dei paesi africani, ma rischia nel lungo periodo di approfondire la dipendenza di questi ultimi dall’esportazione di un numero esiguo di prodotti non lavorati. Questa tendenza ritarderebbe ancora una volta il processo di diversificazione delle produzioni africane, considerato da più parti e ormai da molti anni una priorità da realizzare per consentire ai paesi africani di affrancarsi dall’instabilità dei prezzi internazionali delle materie prime (i cui termini di scambio hanno, inoltre, registrato un andamento calante durante la gran parte del secolo scorso), e poter quindi mettere in moto forme di sviluppo più sostenibili.


Secondo l’United Nations Conference on Trade and Development in questi ultimi anni anche gli investimenti delle imprese cinesi (in gran parte statali, ma in maniera crescente anche private) in Africa sono rapidamente cresciuti. Per quanto ancora limitato rispetto a quello dei paesi industrializzati, lo stock di investimenti cinesi nel continente è passato da circa 46 milioni di dollari (USA) nel 1990 a circa 977 milioni di dollari (USA) nel 2005.


Gli investimenti cinesi in Africa si sono prevalentemente indirizzati verso il settore energetico: le imprese di Stato cinesi hanno acquistato diritti di prospezione e sfruttamento di giacimenti di petrolio e gas in numerosi paesi, tra cui Angola, Nigeria, Sudan, Gabon, Congo Brazzaville, Guinea Equatoriale, Mauritania, Niger, Kenya, Algeria, Libia e Somalia.Complessivamente, nel 2010 la Cina ha importato 56,4 milionidi tonnellate di petrolio dai paesi dell’Africa subsahariana, una cifra che rappresenta il 22,8 per cento delle esportazioni petrolifere complessive della regione.


Accanto al settore energetico, le imprese cinesi hanno compiuto ingenti investimenti anche in quello minerario. Nel caso dello Zambia, approfittando del processo di privatizzazione avviato dal governo a metà degli anni Novanta, alcune imprese cinesi hanno rilevato alcune delle principali miniere di rame del paese. La presenza economica cinese in Zambia è paradigmatica, tuttavia, di una serie di difficoltà politiche che gli investitori cinesi stanno incontrando in maniera crescente nei paesi africani. Le precarie condizioni di lavoro e di sicurezza all’interno delle miniere di proprietà cinese hanno infatti provocato scioperi e proteste da parte dei lavoratori. Le violenze che hanno accompagnato queste proteste hanno costretto il governo dello Zambia a intervenire presso gli investitori cinesi perché garantissero condizioni di impiego migliori ai loro lavoratori. In seguito, durante la campagna per le elezioni presidenziali del 2006, Michael Sata, uno dei candidati dell’opposizione sollevò con vigore il tema degli effetti negativi che gli investimenti cinesi stavano producendo in Zambia, spingendo l’ambasciatore cinese a Lusaka a minacciare la rottura delle relazioni diplomatiche con lo Zambia nel caso in cui Sata avesse vinto le elezioni.


Alle grandi imprese cinesi presenti in Africa si affiancano sempre più piccole e medie imprese private, per lo più attive nel settore manifatturiero. L’espansione delle imprese cinesi in Africa, come anche in altre regioni del globo, viene fortemente incentivata dal governo di Pechino, che mette a disposizione degli imprenditori prestiti a tasso agevolato e sgravi fiscali. Il grande interrogativo che avvolge questa crescita degli investimenti cinesi in Africa riguarda gli effetti che essi avranno sul tessuto economico dei paesi africani. In particolare, non sono mancate le critiche per il fatto che le imprese cinesi tendono non solo a reperire le importazioni necessarie alle loro produzioni, ma anche a reclutare la manodopera in Cina. Anche gli effetti che la costruzione di “zone economiche speciali” – che il governo di Pechino e alcuni gruppi imprenditoriali hanno avviato in paesi africani come Egitto, Nigeria e Zambia al fine di «dimostrare l’efficacia di alcuni aspetti del modello di sviluppo della Cina e condividerlo con paesi amici» – avrà sul tessuto economico dei paesi che le ospitano rimangono da verificare. Il rischio infatti è quello di incentivare un modello di sviluppo che coinvolge solo alcune “enclave”, prive di legami significativi con il tessuto economico nazionale circostante.


La Cina fornisce, infine, considerevoli aiuti allo sviluppo ai paesi africani sotto forma di doni o di prestiti a tasso agevolato. Nonostante le difficoltà insite nel reperimento di dati sull’ammontare degli aiuti cinesi ai paesi africani, Deborah Brautigam ha stimato che si siano aggirati intorno a 1,6 miliardi di dollari nel 2007 e a 2 miliardi di dollari nel 2009, una cifra che non appare ingente se paragonata con quanto messo a disposizione dai paesi membri dell’Organization for Economic Cooperation and Development (Oecd/Ocse). Nel novembre del 2009 il primo ministro cinese Wen Jiabao ha promesso che nei successivi tre anni Pechino avrebbe fornito prestiti ai paesi africani per un ammontare complessivo di dieci miliardi di dollari (USA).


Una quota non trascurabile dei prestiti agevolati che Pechino ha fornito ai paesi africani è stata destinata ad attuare progetti di costruzione o riabilitazione di infrastrutture. In alcuni casi i governi africani si sono impegnati a ripagare i prestiti cinesi tramite la fornitura di risorse energetiche e minerarie. Nel maggio del 2008, ad esempio, è stato reso noto un accordo tra il governo cinese e quello della Repubblica Democratica del Congo in base al quale il primo si impegnava a prestare al secondo 6,5 miliardi di dollari (USA) per la realizzazione di progetti infrastrutturali. A corto di risorse finanziarie, il presidente congolese Joseph Kabila ha accettato di ripagare il prestito tramite la fornitura di rame e cobalto a Pechino. Gli accordi per l’erogazione dell’assistenza finanziaria cinese ai paesi africani contengono usualmente delle clausole che riservano alle imprese cinesi una quota degli appalti che verranno banditi. Queste clausole – per la verità, comuni alla grande maggioranza dei programmi di cooperazione bilaterali – non hanno mancato di suscitare le proteste delle imprese edili locali, che si vedono scavalcate nell’assegnazione degli appalti pubblici.


Parallelamente all’intensificazione delle relazioni economiche, nel corso dell’ultimo decennio si è assistito all’istituzionalizzazione dei rapporti politici tra Pechino e i governi africani. Ciò è avvenuto non solo attraverso le frequenti visite del presidente e del primo ministro cinesi in Africa e, viceversa, dei leader africani in Cina ma anche attraverso il Forum on China-Africa Cooperation (FOCAC), che a partire dal 2000 ogni tre anni vede riuniti i massimi esponenti politici cinesi con i loro corrispettivi africani per discutere le priorità della loro cooperazione economica […]


Considerate queste linee di tendenza, non può stupire che alcuni autori abbiano fatto ricorso al termine scramble (lo stesso che venne impiegato per descrivere le fasi della spartizione coloniale dell’Africa alla fine del XIX secolo) per spiegare la competizione in atto tra le grandi potenze per assicurarsi non solo alleati politici e militari (si pensi alla lotta al terrorismo internazionale perseguita dagli Stati Uniti), ma anche (e, forse, soprattutto) l’accesso alle risorse energetiche che si trovano nell’Africa sub-sahariana. Questa “corsa” ai paesi africani non vede coinvolti solo Cina e Stati Uniti, ma anche paesi come l’India e le ex potenze coloniali europee, che vedono seriamente messe in discussione sfere d’influenza politica ed economica che la Guerra Fredda aveva abituato a considerare saldamente assicurate.


Alcune tendenze sono destinate a intensificare nei prossimi anni l’interesse delle grandi potenze per l’Africa e le sue risorse. Tra il 2000 e il 2007 la produzione petrolifera del continente è aumentata, per poi calare leggermente nel 2008 e nel 2009 e riprendere nel 2010 (anno in cui la produzione si è attestata a 10 milioni di barili al giorno). Per quanto in termini assoluti si tratti di una cifra ancora largamente inferiore alla produzione petrolifera del Medio Oriente (che ha prodotto 25 milioni circa di barili al giorno nel 2010, una cifra che equivale al 30,3 per cento della produzione mondiale), i tassi di produzione e l’aumento delle riserve comprovate, che alla fine del 2010 hanno raggiunto i 17,4 miliardi di tonnellate (pari al 9,5 per cento delle riserve comprovate a livello planetario) hanno acceso l’interesse delle grandi multinazionali del petrolio. Accanto ai dati sulla produzione, bisogna osservare che ormai da molti anni si continuano a localizzare nuovi giacimenti petroliferi in Africa sub-sahariana, concentrati soprattutto nelle acque del Golfo di Guinea. In quest’ultima regione, accanto a esportatori tradizionali come Nigeria, Camerun, Gabon e Angola, nell’ultimo decennio sono letteralmente esplose le esportazioni petrolifere della Guinea Equatoriale (da 17 mila barili al giorno nel 1996 a 274 mila barili nel 2010), mentre si attende che prenda avvio la produzione di São Tomé e Principe. Il petrolio del Golfo di Guinea ha suscitato l’interesse delle grandi imprese multinazionali non solo per le sue qualità, che lo rendono particolarmente adatto agli utilizzi dell’industria automobilistica, ma anche perché la sua collocazione al largo della terraferma isola in larga misura le attività di sfruttamento dalle vicende politiche nazionali e ne facilita la messa in sicurezza.


Mentre rimane da vedere se l’intensificazione delle relazioni politiche ed economiche con Pechino aumenterà il peso negoziale dei governi africani all’interno delle istituzioni internazionali, bisogna osservare che il problema di fondo che i paesi africani devono risolvere è quello di uscire dal ciclo di “crescita senza prosperità” che ha caratterizzato la performance socio-economica della grande maggioranza di essi nell’ultimo decennio. In questo contesto, l’intensificarsi delle relazioni economiche con la Cina ha contribuito a riaccendere il dibattito sulle politiche per rilanciare lo sviluppo economico nel continente. L’intensificazione delle relazioni economiche con la Cina potrà fornire una risposta efficace agli alti tassi di povertà che permangono nei paesi del continente e alle profonde sperequazioni che in questi ultimi anni hanno accompagnato la ripresa della loro crescita economica?


La risposta a questa domanda deve partire dal riconoscimento del sostanziale fallimento dei programmi di sviluppo neoliberisti applicati in Africa dagli anni Ottanta ad oggi e dal fatto che le imprese cinesi hanno sfruttato proprio l’apertura dei mercati africani promossa dal Fondo Monetario Internazionale, dalla Banca Mondiale e dai donatori occidentali. Per quanto riguarda in specifico il ruolo della Cina, è difficile credere che i suoi rapporti con l’Africa saranno in grado di promuovere modelli di sviluppo democratico e inclusivo nei paesi del continente. Come abbiamo visto, se da una parte gli aiuti forniti da Pechino possono contribuire a riabilitare le reti infrastrutturali nel continente, dall’altra le esportazioni cinesi esercitano forti pressioni sulle imprese manifatturiere africane. Gli investimenti cinesi tendono, infatti, a non sviluppare legami significativi con il tessuto economico dei paesi verso cui si dirigono mentre, infine, la domanda cinese di risorse energetiche, minerali e legname anziché promuovere la diversificazione delle produzioni africane aggrava la dipendenza dei paesi del continente dall’esportazione di un numero esiguo di materie prime.


Questo estratto è parte di un articolo pubblicato sul numero di Sapere di Febbraio 2012 con il titolo “La loro Africa”. Ecco come abbonarsi alla rivista


Arrigo Pallotti è docente di Storia e Istituzioni dell’Africa presso l’Università di Bologna.

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