Potrebbe iniziare così il tormentone 2009 dell’hit parade delle tecnologie più
desiderate del momento nel mondo imprenditoriale. Mi riferisco al web 2.0,
questo misterioso oggetto del desiderio di cui tutti parlano ma dal quale pochi,
al momento, hanno saputo trarre beneficio. Il problema è che prima di riuscire a
utilizzare in modo profittevole qualcosa, bisognerebbe conoscere bene “che cosa”
quel qualcosa possa realmente dare e perché ma, soprattutto, di cosa stiamo
realmente parlando.
In genere, la prima cosa che viene in mente quando
si parla di Web 2.0 sono i blog. In seconda battuta Wikipedia e, a seguire, i
social network più gettonati del momento: MySpace, Facebook, LinkedIn, per menzionarne alcuni. Altri poi determinano se un
sito è web 2.0 dalla grafica che utilizza: se vengono utilizzati effetti
speciali con trasparenze, riflessi e amenità varie, se sono utilizzati colori
sgargianti e caratteri dallo stile moderno e futuristico, allora siamo
sicuramente in un sito web 2.0. Chi invece ha approfondito più l’aspetto
tecnologico, vi parlerà di mashup, di AJAX, di REST, di RSS
Feed e altre mille sigle e termini dal caratteristico sapore
informatico, di quelli che piacciono tanto agli addetti ai lavori.
Sotto
un certo punto di vista è tutto vero, ma se vi aspettate che tutto ciò vi
permetta di capire come utilizzare il web 2.0 per fare
business, allora ho paura che avrete una cocente delusione. Il punto è
che il web 2.0 non è una tecnologia, anche se poi di fatto si basa su
determinate tecnologie facilitanti e soprattutto su un modo specifico di usarle.
Dietro ad esse tuttavia, gli ingredienti sono sempre gli stessi: un po’ di
spazio disco (tanto, se i contenuti sono anche di natura multimediale), un po’
di capacità di elaborazione (tanta, se volete gestire molti servizi
contemporaneamente), un bel cocktail di software capace di interoperare
utilizzando standard aperti e protocolli più o meno consolidati. Nulla di
fantascientifico, insomma. Ma allora cos’è il web 2.0 e, soprattutto, cosa ci
possiamo fare?
Web 2.0, questo conosciuto
Quando
Tim Berners-Lee inventò il web nel lontano 1989, il suo obiettivo era quello di
fornire un semplice meccanismo per condividere contenuti in rete e collegarli
logicamente fra loro in modo da permettere ai ricercatori di tutto il mondo di
muoversi più agevolmente nel mare magnum delle pubblicazioni scientifiche e in
generale di tutta la documentazione prodotta dalla comunità scientifica.
Il web, infatti, è nato presso il CERN di Ginevra, dove Tim
lavorava in qualità di fisico.
Per quanto possa sembrare assurdo, la chiave
di volta del web era semplicemente la possibilità di collegare fra loro due
contenuti in modo monodirezionale, ovvero senza bisogno che gli autori di
entrambi i testi si mettessero d’accordo. I collegamenti ipertestuali, infatti,
erano già conosciuti da tempo ma erano bidirezionali e richiedevano di operare
su entrambi i contenuti che si volevano collegare fra loro. Inoltre i precursori
del web erano proprietari e quindi soggetti a restrizioni in termini di diritti
e licenze. Il web invece fu reso disponibile a chiunque senza
limitazioni nel 1993 dal CERN e questo fu sicuramente uno dei fattori
chiave del suo successo. Integrando Internet con un semplice meccanismo che
permettesse a chiunque di collegarsi a un altro contenuto dal proprio e
aggiungendo in seguito un’interfaccia per poter navigare facilmente da un
contenuto all’altro, ovvero un browser, Tim diede inizio alla una nuova era
dell’informazione globale.
Il web nacque quindi per permettere
di condividere informazione e, nella mente di Tim, avrebbe dovuto
essere il primo passo verso un sistema planetario di collaborazione e
cogenerazione dei contenuti. Tutto ciò non avvenne subito. Presto le aziende e i
fornitori tradizionali di informazione si resero conto del potenziale
rappresentato dalla Rete e vi sbarcarono in massa. All’inizio fu un bagno di
sangue, perché non ci si rese conto che non bastava creare una domanda
attraverso un canale nuovo e innovativo: bisognava anche soddisfarla, e questo
richiedeva capacità e investimenti nei processi, nell’organizzazione e in tutta
una serie di aspetti che con il web in sé non avevano nulla a che vedere. Ma
questa è storia. Al giorno d’oggi quasi tutte le aziende utilizzano la Rete come
uno dei tanti canali di comunicazione e vendita, anche se non sempre il
principale o il più importante.
Oggi il web è un sistema
complesso e dinamico in continua evoluzione e, come in fondo aveva
previsto Tim, una parte di questa evoluzione si è indirizzata verso il mondo
della collaborazione e della generazione di contenuti in rete. Perché tutto ciò
fosse possibile, tuttavia, si è dovuto aspettare che la rete entrasse nelle
nostre case e lo facesse con collegamenti a banda larga, ovvero capaci di
trasferire a basso costo grandi quantità di dati. Così infatti, come il web si è
sviluppato nel mondo della ricerca e non dell’impresa, così il web 2.0 è nato in
quello anarchico e destrutturato della comunità dei navigatori, non in quello
ben organizzato e regolamentato del business. Così adesso possiamo iniziare a
dire cos’è il web 2.0 e quindi iniziare a comprendere qual è il giusto modo di
affrontarlo: il web 2.0 è un fenomeno sociale, non tecnologico.
Ma c’è
di più: non solo è un fenomeno sociale, ma non è nulla di nuovo. Il
desiderio di generare contenuti, condividerli, lavorare insieme, è sempre
esistito, solo che non si era mai potuto realizzare appieno a causa
della mancanza di mezzi adeguati. Il web 2.0 permette di dare pieno impulso a
questo desiderio nascosto che covava sotto le ceneri e a renderlo qualcosa di
reale, di tangibile. Bisogna infatti essere coscienti che quando usiamo il
termine "virtuale" con riferimento alla rete, ci riferiamo solo al fatto che
tutto ciò che sta in rete non ha sostanza materiale, non è cioè percepibile sul
piano tattile. Questo tuttavia non deve trarre in inganno: non c’è nulla di
virtuale nella Rete. La Rete è forse una delle realtà più tangibili della nostra
epoca perché dietro ogni testo, immagine, video, contenuto in genere, dietro
ogni servizio e ogni applicazione, ci stanno delle persone, persone
assolutamente reali. La Rete ha, e non potrebbe essere altrimenti, tutte le
idiosincrasie che ha il mondo reale, perché la Rete è fatta di persone reali: la
Rete siamo noi. Solo comprendendo molto bene questo principio potremo capire
perché certe iniziative in Rete hanno successo mentre altre sono destinate a
fallire. È come quando si deve disegnare una nuova campagna di marketing: se non
si fa un’analisi seria di quello che sarà il target della campagna, le
probabilità di avere successo saranno scarse.
Protagonismo e
reputazione
Abbiamo detto che il web 2.0 è un fenomeno
sociale, un fenomeno che spinge persone che non si conoscono
fisicamente a interagire fra loro creando di fatto, in modo naturale e
inconsapevole quanto cosciente e volontario, contenuti. Sono contenuti gli
articoli di Wikipedia in cui individui di tutto il mondo collaborano in un
sistema debolmente moderato e ai limiti di una sorta di anarchia sostenibile per
produrre materiale che ha una qualità impensabile per il modo in cui viene
prodotto, dimostrando così il vero potere dell’intelligenza collettiva; sono
contenuti le sequele infinite di messaggi e repliche, battute e controbattute
semiserie che vengono prodotte ogni giorno in reti sociali come Facebook o nelle
miriadi di sistemi di messaggistica esistenti in rete. Alcuni sono effimeri,
altri lasciano una traccia più duratura in Rete, altri ancora si propagano come
veri e propri tsunami attraverso un processo di replicazione che spesso degenera
in un meccanismo autoreferenziale ai limiti della psicosi. E naturalmente sono
contenuti i curricula di LinkedIn, i video di YouTube, le recensioni di Shelfari o di GoodReads. Si potrebbe andare avanti così per ore, ma non
avrebbe senso, anche perché questo non è un articolo di sociologia, ma inteso a
dare un’indicazione chiara alle imprese su come trarre vantaggio dal web 2.0. Ma
quella è la conclusione, l’obiettivo. Per raggiungere un obiettivo bisogna
conoscere i fondamentali: non si manda una freccia al centro di un bersaglio se
non si sa usare un arco.
Cosa c’è quindi alle spalle del web
2.0? Quali sono i fattori di stimolo che portano le persone ad
utilizzare la Rete in questo modo? Diciamo che è una coincidenza, ma quel “2”
dopo la parola web contiene in sé la risposta, sebbene nasca semplicemente dalla
nomenclatura che in informatica identifica i rilasci delle varie applicazioni
con una sequenza numerica.
Due infatti sono i fattori chiave:
protagonismo e reputazione. E sempre due sono i punti di vista da considerare:
quello individuale e quello della collettività.
Consideriamo prima il
protagonismo. Uso questo termine con un’accezione positiva, non negativa, ovvero
il desiderio di farsi conoscere e di far conoscere le proprie capacità, le
proprie opere. Si può dire che alla base ci sia un profondo bisogno di affetto
nel senso più ampio del termine. Negli ultimi decenni questa società ci
ha resi sempre più soli, ha modificato la struttura della famiglia, ha
quasi cancellato le piccole comunità, ci ha chiesto di essere sempre più
competitivi e, producendo sempre di più, ha reso più difficile al singolo e alla
singola opera, di spiccare. I meccanismi che rendono una persona (o un’opera)
famosa non sono più necessariamente legati alla qualità della stessa, ma sono
spesso il risultato di operazioni mediatiche eseguite con precisione chirurgica
e legate a precisi interessi economici. I grandi scienziati come Leonardo o i
grandi filosofi come Bacone avrebbero difficoltà oggi a risaltare come succedeva
un tempo, in questo mondo di reality e talk show.
Poi è arrivata
la Rete. Pian piano la gente se n’è appropriata, ne ha scoperto le
potenzialità, ha capito che permetteva loro di conoscere e farsi conoscere e,
soprattutto, di pubblicare qualsiasi cosa senza dover passare attraverso i
canali tradizionali, quel clero laico rappresentato dagli editori e dai gestori
delle emittenti radiotelevisive che per secoli, soprattutto alla fine del
Secondo Millennio, aveva rappresentato l’unico tramite per la visibilità a
livello di opinione pubblica. Il singolo è così diventato protagonista, lo «YOU»
della copertina del «Time», il signor Nessuno, il blogger della Domenica. E
così, da una Rete di alias e nomignoli alieni dietro ai quali si poteva
nascondere chiunque, siamo passati a una Rete di nomi e cognomi, foto e
curricula, diari e storie quotidiane raccontate con dovizia di particolari, in
una sorta di amnesia collettiva dei timori sulla violazione della nostra
privacy, quella privacy a cui tanto teniamo ma che fa a pugni con il nostro più
ampio desiderio di affetto.
Protagonismo: questo sono
io, questo è quello che so fare, che faccio, addirittura che sto facendo. E
siamo arrivati a Facebook. Poi l’estetica, la grafica accattivante, la
geolocalizzazione tramite mappe e cartine di ogni tipo, ma questa è la crosta.
Importante, non sia mai, ma solo la crosta. Sotto la crosta il cuore è quello
caldo di chi ha una passione, un interesse, uno scopo. Sia esso trovare amici o
qualcuno con cui passare la serata e magari qualcos’altro, sia quello di
lavorare insieme per un obiettivo comune, fare volontariato, migliorare il
mondo. È web 2.0 GalaxyZoo,
dove persone che di astronomia sanno, alcuni molto poco, altri decisamente tanto
pur essendo per lo più dilettanti, lavorano insieme per classificare le galassie
“catturate” dal progetto Sloan Digital Sky Survey. Nessuna grafica accattivante
in quel sito, nessun gadget speciale o colori esplosivi, sebbene le foto da sole
fanno decisamente sognare mondi lontani e saghe alla Star Trek; un sito
decisamente old-style nell’aspetto, eppure uno dei migliori esempi, assieme a
Wikipedia, del valore che si può creare in Rete facendo leva sul desiderio di
collaborare, di fare qualcosa insieme.
Reputazione:
perché non basta il parlate pure male di me purché ne parliate. La gente vuole
vedersi riconoscere il proprio lavoro, essere in qualche modo confermati dagli
altri nel proprio essere bravi, buoni, onesti o quant’altro sia per noi
positivo. È quella che in psicologia si chiama la “carezza”. Vogliamo il
riconoscimento degli altri, un riconoscimento tangibile che abbia la sua
visibilità. Ecco allora che se scrivo una recensione, gli altri possono dare un
voto; se scrivo un articolo o giro un filmato, gli altri lo possono commentare;
se collaboro in maniera fattiva, mi viene dato un ruolo, una sorta di grado, sia
esso quello di moderatore o quello di amministratore, poco importa: è comunque
un riconoscimento.
Mentre leggete queste righe, provate a pensare già
come tutti questi concetti vi possano suonare familiari all’interno di
un’azienda. Teneteli presenti: metteteli da parte. Ci serviranno.
Enterprise 2.0: la minaccia?
E veniamo
finalmente all’Enterprise 2.0. Fermo restando che il problema a questo punto non
è tanto come posso utilizzare un blog o se mi serve realizzare un wiki in
azienda, vediamo di capire quali potrebbero essere i vantaggi nell’introdurre i
principi del web 2.0 in un’azienda e, soprattutto, quali i rischi.
Incominciamo da quest’ultimi. Un’azienda non è una democrazia: non
funzionerebbe. Non sto dicendo che le aziende siano tiranniche e che sfruttino i
loro dipendenti, ci mancherebbe! Il punto è che un’azienda è più simile a una
nave: ci deve essere un comandante e una gerarchia, regole e procedure, ruoli e
compiti da svolgere. Senza tutto ciò un’azienda non potrebbe operare
efficacemente e con efficienza. Questo tuttavia è l’antitesi di tutto ciò che
sta alla base del web 2.0, almeno in prima approssimazione. Se in un’azienda le
comunicazioni sono controllate e regolamentate, sia buona parte di quelle
interne, sia soprattutto quelle rivolte verso l’esterno, ad esempio, nel web 2.0
tutti possono interagire con tutti al di fuori di qualsiasi schema e funzione. È
evidente che questo rischia di essere disruttivo per un’impresa.
Inoltre realizzare il web 2.0 all’interno dell’azienda è una
cosa, realizzarlo fra l’azienda e il mondo esterno un’altra. Nel primo
caso sono comunque in un ambiente controllato nel quale sto creando
coscientemente delle crepe mirate ad ottenere comunque un vantaggio in termini
di capitalizzazione dell’intelligenza collettiva, nel secondo mi espongo verso
un mondo che non conosco e che non controllo e quindi devo farlo a partire da
altri presupposti, il più importante dei quali è forse quello che afferma che in
ogni caso «c’è più competenza fuori dalla mia azienda che al mio interno», anche
se sono leader di mercato.
Un altro consiglio è quello di non partire
mai dalla tecnologia, ma dalle necessità del business. Prendiamo un blog: ci
posso fare infinite cose. In fondo un blog è solo un modo per pubblicare
facilmente contenuti senza dover conoscere linguaggi specifici o usare
interfacce complesse. Ma poi? A cosa mi potrà servire? Nella blogsfera,
in Rete, ci sono blog di tutti i tipi: da quello intimo e personale - una sorta
di diario aperto - al reportage di guerra, a quello impegnato sul piano politico
e sociale e, ovviamente e immancabilmente, a quello autoreferenziale e
tecnologico.
E in un’azienda?
Due
punti di vista, abbiamo detto. Per il singolo un blog è un modo di farsi
conoscere come esperto, di poter esprimere idee che possono avere un valore per
l’azienda e quindi essergli riconosciute anche tangibilmente. Per la comunità un
blog può essere una risorsa per risparmiare tempo, per crescere, imparare,
risolvere problemi, rendere più efficienti i processi. In fondo chi sta leggendo
questo articolo lo fa perché spera che gli possa dare qualche utile spunto
nell’affrontare il dilemma «web 2.0 sì o no»? Lo stesso vale per un blog.
Entrare nella intranet aziendale, poter cercare e trovare facilmente articoli
scritti da colleghi più esperti che hanno affrontato prima di noi un certo
problema, può far risparmiare ore se non giorni di lavoro. Chi scrive, lo fa per
protagonismo e perché l’azienda non solo non lo ostacola in questo, ma lo
facilita, addirittura lo motiva. Chi legge lo fa perché comunque riuscire a
raggiungere un obiettivo vuol dire riceverne indietro un ritorno, per cui
qualsiasi strumento possa aiutare è il benvenuto. In pratica l’esperienza di chi
scrive diventa valore per chi legge ed entrambi ne hanno un beneficio.
Ovviamente questo avviene se in azienda si lavora per obiettivi
e non a ore. E siamo di nuovo al nodo della questione. Non si può
diventare veramente un’impresa 2.0 se non si cambia cultura, e cambiare non vuol
dire introdurre una piattaforma blog o wiki o installare nuovi strumenti di
collaborazione. Cambiare vuol dire rivedere processi, ruoli, flussi
operativi, la struttura stessa dell’impresa. Solo allora si potrà
pensare di sfruttare un wiki, ad esempio, per consolidare la manualistica
interna in una forma estremamente accessibile, o le reti sociali per crearsi una
sorta di help desk personale a 360° che permetta facilmente di fruire in ogni
settore aziendale dell’esperienza accumulata in altre divisioni. E questa è la
parte facile della partita. Il gioco diventa serio quando ci si porrà il
problema di usare il web 2.0 verso l’esterno, con i propri clienti, i fornitori,
la società in genere, e quindi, visto dal punto di vista aziendale, il mercato.
Allora sarà necessario costruire prima un business case molto robusto, capire
bene i meccanismi sociali che poi sono quelli che in fondo già conosciamo, se
conosciamo gli esseri umani, e solo dopo porsi il problema di come realizzarlo.
In fondo nelle aziende questo modo di ragionare esiste già: chi fa marketing,
chi si occupa di pubblicità, non ragiona solo in termini di qualità del prodotto
promozionale, sia esso una brochure o uno spot televisivo; ragiona in termini di
psicologia delle masse, di leve psicologiche, di fattori sociali. Ebbene, chi si
occuperà di web 2.0 dovrà fare lo stesso.
Come posso sostenere
la mia immagine attraverso le reti sociali? Quali
rischi corro e qual è il modo corretto di fare blogging in rete per presentare i
miei prodotti? Come posso sfruttare i contenuti prodotti dai miei stessi clienti
per migliorare la mia offerta? Come posso legare le carte fedeltà al ranking che
hanno i clienti fidelizzati all’interno della comunità virtuale? Queste sono
solo alcune delle domande alle quali bisogna essere in grado di rispondere se si
vuole utilizzare seriamente questi strumenti. Quali servizi offrire e quali
tecnologie utilizzare, è di conseguenza. Come realizzare il sito, poi, come
vestirlo, diventa un di cui.
Alla fin fine, il web 2.0 è soprattutto simbolo
di un cambiamento senza fine, che richiede che il change management diventi la
prassi e non un evento periodico ogni tot anni. Essere Enterprise 2.0 vuol dire
di fatto diventare Enterprise Beta, e in quanto all’evitare gli errori, ben
venga, purché si sia compreso che parliamo solo di quelli più eclatanti: lo
sbagliare è parte integrante del cambiamento e può sicuramente essere gestito in
modo da limitare al minimo i danni e addirittura da trasformarlo in un’occasione
di crescita. Se si accetta tutto ciò, allora, e solo allora, si è davvero
pronti.
Commenti -
Purtroppo perché le PMI possano usare efficacemente questi strumenti devono
prima entrare in una cultura di RETE e di COLLABORAZIONE ( e non sto parlando di
tecnologia ma di strategie aziendali). Purtroppo le PMI italiane non hanno
spesso questa vision e continuano a scannarsi fra loro sul territorio locale
perdendo così l’opportunità di fare massa critica per essere competitive a
livello globale. Troppe aziende familiari, senza cultura manageriale.
da : AgoraVox -
desiderate del momento nel mondo imprenditoriale. Mi riferisco al web 2.0,
questo misterioso oggetto del desiderio di cui tutti parlano ma dal quale pochi,
al momento, hanno saputo trarre beneficio. Il problema è che prima di riuscire a
utilizzare in modo profittevole qualcosa, bisognerebbe conoscere bene “che cosa”
quel qualcosa possa realmente dare e perché ma, soprattutto, di cosa stiamo
realmente parlando.
In genere, la prima cosa che viene in mente quando
si parla di Web 2.0 sono i blog. In seconda battuta Wikipedia e, a seguire, i
social network più gettonati del momento: MySpace, Facebook, LinkedIn, per menzionarne alcuni. Altri poi determinano se un
sito è web 2.0 dalla grafica che utilizza: se vengono utilizzati effetti
speciali con trasparenze, riflessi e amenità varie, se sono utilizzati colori
sgargianti e caratteri dallo stile moderno e futuristico, allora siamo
sicuramente in un sito web 2.0. Chi invece ha approfondito più l’aspetto
tecnologico, vi parlerà di mashup, di AJAX, di REST, di RSS
Feed e altre mille sigle e termini dal caratteristico sapore
informatico, di quelli che piacciono tanto agli addetti ai lavori.
Sotto
un certo punto di vista è tutto vero, ma se vi aspettate che tutto ciò vi
permetta di capire come utilizzare il web 2.0 per fare
business, allora ho paura che avrete una cocente delusione. Il punto è
che il web 2.0 non è una tecnologia, anche se poi di fatto si basa su
determinate tecnologie facilitanti e soprattutto su un modo specifico di usarle.
Dietro ad esse tuttavia, gli ingredienti sono sempre gli stessi: un po’ di
spazio disco (tanto, se i contenuti sono anche di natura multimediale), un po’
di capacità di elaborazione (tanta, se volete gestire molti servizi
contemporaneamente), un bel cocktail di software capace di interoperare
utilizzando standard aperti e protocolli più o meno consolidati. Nulla di
fantascientifico, insomma. Ma allora cos’è il web 2.0 e, soprattutto, cosa ci
possiamo fare?
Web 2.0, questo conosciuto
Quando
Tim Berners-Lee inventò il web nel lontano 1989, il suo obiettivo era quello di
fornire un semplice meccanismo per condividere contenuti in rete e collegarli
logicamente fra loro in modo da permettere ai ricercatori di tutto il mondo di
muoversi più agevolmente nel mare magnum delle pubblicazioni scientifiche e in
generale di tutta la documentazione prodotta dalla comunità scientifica.
Il web, infatti, è nato presso il CERN di Ginevra, dove Tim
lavorava in qualità di fisico.
Per quanto possa sembrare assurdo, la chiave
di volta del web era semplicemente la possibilità di collegare fra loro due
contenuti in modo monodirezionale, ovvero senza bisogno che gli autori di
entrambi i testi si mettessero d’accordo. I collegamenti ipertestuali, infatti,
erano già conosciuti da tempo ma erano bidirezionali e richiedevano di operare
su entrambi i contenuti che si volevano collegare fra loro. Inoltre i precursori
del web erano proprietari e quindi soggetti a restrizioni in termini di diritti
e licenze. Il web invece fu reso disponibile a chiunque senza
limitazioni nel 1993 dal CERN e questo fu sicuramente uno dei fattori
chiave del suo successo. Integrando Internet con un semplice meccanismo che
permettesse a chiunque di collegarsi a un altro contenuto dal proprio e
aggiungendo in seguito un’interfaccia per poter navigare facilmente da un
contenuto all’altro, ovvero un browser, Tim diede inizio alla una nuova era
dell’informazione globale.
Il web nacque quindi per permettere
di condividere informazione e, nella mente di Tim, avrebbe dovuto
essere il primo passo verso un sistema planetario di collaborazione e
cogenerazione dei contenuti. Tutto ciò non avvenne subito. Presto le aziende e i
fornitori tradizionali di informazione si resero conto del potenziale
rappresentato dalla Rete e vi sbarcarono in massa. All’inizio fu un bagno di
sangue, perché non ci si rese conto che non bastava creare una domanda
attraverso un canale nuovo e innovativo: bisognava anche soddisfarla, e questo
richiedeva capacità e investimenti nei processi, nell’organizzazione e in tutta
una serie di aspetti che con il web in sé non avevano nulla a che vedere. Ma
questa è storia. Al giorno d’oggi quasi tutte le aziende utilizzano la Rete come
uno dei tanti canali di comunicazione e vendita, anche se non sempre il
principale o il più importante.
Oggi il web è un sistema
complesso e dinamico in continua evoluzione e, come in fondo aveva
previsto Tim, una parte di questa evoluzione si è indirizzata verso il mondo
della collaborazione e della generazione di contenuti in rete. Perché tutto ciò
fosse possibile, tuttavia, si è dovuto aspettare che la rete entrasse nelle
nostre case e lo facesse con collegamenti a banda larga, ovvero capaci di
trasferire a basso costo grandi quantità di dati. Così infatti, come il web si è
sviluppato nel mondo della ricerca e non dell’impresa, così il web 2.0 è nato in
quello anarchico e destrutturato della comunità dei navigatori, non in quello
ben organizzato e regolamentato del business. Così adesso possiamo iniziare a
dire cos’è il web 2.0 e quindi iniziare a comprendere qual è il giusto modo di
affrontarlo: il web 2.0 è un fenomeno sociale, non tecnologico.
Ma c’è
di più: non solo è un fenomeno sociale, ma non è nulla di nuovo. Il
desiderio di generare contenuti, condividerli, lavorare insieme, è sempre
esistito, solo che non si era mai potuto realizzare appieno a causa
della mancanza di mezzi adeguati. Il web 2.0 permette di dare pieno impulso a
questo desiderio nascosto che covava sotto le ceneri e a renderlo qualcosa di
reale, di tangibile. Bisogna infatti essere coscienti che quando usiamo il
termine "virtuale" con riferimento alla rete, ci riferiamo solo al fatto che
tutto ciò che sta in rete non ha sostanza materiale, non è cioè percepibile sul
piano tattile. Questo tuttavia non deve trarre in inganno: non c’è nulla di
virtuale nella Rete. La Rete è forse una delle realtà più tangibili della nostra
epoca perché dietro ogni testo, immagine, video, contenuto in genere, dietro
ogni servizio e ogni applicazione, ci stanno delle persone, persone
assolutamente reali. La Rete ha, e non potrebbe essere altrimenti, tutte le
idiosincrasie che ha il mondo reale, perché la Rete è fatta di persone reali: la
Rete siamo noi. Solo comprendendo molto bene questo principio potremo capire
perché certe iniziative in Rete hanno successo mentre altre sono destinate a
fallire. È come quando si deve disegnare una nuova campagna di marketing: se non
si fa un’analisi seria di quello che sarà il target della campagna, le
probabilità di avere successo saranno scarse.
Protagonismo e
reputazione
Abbiamo detto che il web 2.0 è un fenomeno
sociale, un fenomeno che spinge persone che non si conoscono
fisicamente a interagire fra loro creando di fatto, in modo naturale e
inconsapevole quanto cosciente e volontario, contenuti. Sono contenuti gli
articoli di Wikipedia in cui individui di tutto il mondo collaborano in un
sistema debolmente moderato e ai limiti di una sorta di anarchia sostenibile per
produrre materiale che ha una qualità impensabile per il modo in cui viene
prodotto, dimostrando così il vero potere dell’intelligenza collettiva; sono
contenuti le sequele infinite di messaggi e repliche, battute e controbattute
semiserie che vengono prodotte ogni giorno in reti sociali come Facebook o nelle
miriadi di sistemi di messaggistica esistenti in rete. Alcuni sono effimeri,
altri lasciano una traccia più duratura in Rete, altri ancora si propagano come
veri e propri tsunami attraverso un processo di replicazione che spesso degenera
in un meccanismo autoreferenziale ai limiti della psicosi. E naturalmente sono
contenuti i curricula di LinkedIn, i video di YouTube, le recensioni di Shelfari o di GoodReads. Si potrebbe andare avanti così per ore, ma non
avrebbe senso, anche perché questo non è un articolo di sociologia, ma inteso a
dare un’indicazione chiara alle imprese su come trarre vantaggio dal web 2.0. Ma
quella è la conclusione, l’obiettivo. Per raggiungere un obiettivo bisogna
conoscere i fondamentali: non si manda una freccia al centro di un bersaglio se
non si sa usare un arco.
Cosa c’è quindi alle spalle del web
2.0? Quali sono i fattori di stimolo che portano le persone ad
utilizzare la Rete in questo modo? Diciamo che è una coincidenza, ma quel “2”
dopo la parola web contiene in sé la risposta, sebbene nasca semplicemente dalla
nomenclatura che in informatica identifica i rilasci delle varie applicazioni
con una sequenza numerica.
Due infatti sono i fattori chiave:
protagonismo e reputazione. E sempre due sono i punti di vista da considerare:
quello individuale e quello della collettività.
Consideriamo prima il
protagonismo. Uso questo termine con un’accezione positiva, non negativa, ovvero
il desiderio di farsi conoscere e di far conoscere le proprie capacità, le
proprie opere. Si può dire che alla base ci sia un profondo bisogno di affetto
nel senso più ampio del termine. Negli ultimi decenni questa società ci
ha resi sempre più soli, ha modificato la struttura della famiglia, ha
quasi cancellato le piccole comunità, ci ha chiesto di essere sempre più
competitivi e, producendo sempre di più, ha reso più difficile al singolo e alla
singola opera, di spiccare. I meccanismi che rendono una persona (o un’opera)
famosa non sono più necessariamente legati alla qualità della stessa, ma sono
spesso il risultato di operazioni mediatiche eseguite con precisione chirurgica
e legate a precisi interessi economici. I grandi scienziati come Leonardo o i
grandi filosofi come Bacone avrebbero difficoltà oggi a risaltare come succedeva
un tempo, in questo mondo di reality e talk show.
Poi è arrivata
la Rete. Pian piano la gente se n’è appropriata, ne ha scoperto le
potenzialità, ha capito che permetteva loro di conoscere e farsi conoscere e,
soprattutto, di pubblicare qualsiasi cosa senza dover passare attraverso i
canali tradizionali, quel clero laico rappresentato dagli editori e dai gestori
delle emittenti radiotelevisive che per secoli, soprattutto alla fine del
Secondo Millennio, aveva rappresentato l’unico tramite per la visibilità a
livello di opinione pubblica. Il singolo è così diventato protagonista, lo «YOU»
della copertina del «Time», il signor Nessuno, il blogger della Domenica. E
così, da una Rete di alias e nomignoli alieni dietro ai quali si poteva
nascondere chiunque, siamo passati a una Rete di nomi e cognomi, foto e
curricula, diari e storie quotidiane raccontate con dovizia di particolari, in
una sorta di amnesia collettiva dei timori sulla violazione della nostra
privacy, quella privacy a cui tanto teniamo ma che fa a pugni con il nostro più
ampio desiderio di affetto.
Protagonismo: questo sono
io, questo è quello che so fare, che faccio, addirittura che sto facendo. E
siamo arrivati a Facebook. Poi l’estetica, la grafica accattivante, la
geolocalizzazione tramite mappe e cartine di ogni tipo, ma questa è la crosta.
Importante, non sia mai, ma solo la crosta. Sotto la crosta il cuore è quello
caldo di chi ha una passione, un interesse, uno scopo. Sia esso trovare amici o
qualcuno con cui passare la serata e magari qualcos’altro, sia quello di
lavorare insieme per un obiettivo comune, fare volontariato, migliorare il
mondo. È web 2.0 GalaxyZoo,
dove persone che di astronomia sanno, alcuni molto poco, altri decisamente tanto
pur essendo per lo più dilettanti, lavorano insieme per classificare le galassie
“catturate” dal progetto Sloan Digital Sky Survey. Nessuna grafica accattivante
in quel sito, nessun gadget speciale o colori esplosivi, sebbene le foto da sole
fanno decisamente sognare mondi lontani e saghe alla Star Trek; un sito
decisamente old-style nell’aspetto, eppure uno dei migliori esempi, assieme a
Wikipedia, del valore che si può creare in Rete facendo leva sul desiderio di
collaborare, di fare qualcosa insieme.
Reputazione:
perché non basta il parlate pure male di me purché ne parliate. La gente vuole
vedersi riconoscere il proprio lavoro, essere in qualche modo confermati dagli
altri nel proprio essere bravi, buoni, onesti o quant’altro sia per noi
positivo. È quella che in psicologia si chiama la “carezza”. Vogliamo il
riconoscimento degli altri, un riconoscimento tangibile che abbia la sua
visibilità. Ecco allora che se scrivo una recensione, gli altri possono dare un
voto; se scrivo un articolo o giro un filmato, gli altri lo possono commentare;
se collaboro in maniera fattiva, mi viene dato un ruolo, una sorta di grado, sia
esso quello di moderatore o quello di amministratore, poco importa: è comunque
un riconoscimento.
Mentre leggete queste righe, provate a pensare già
come tutti questi concetti vi possano suonare familiari all’interno di
un’azienda. Teneteli presenti: metteteli da parte. Ci serviranno.
Enterprise 2.0: la minaccia?
E veniamo
finalmente all’Enterprise 2.0. Fermo restando che il problema a questo punto non
è tanto come posso utilizzare un blog o se mi serve realizzare un wiki in
azienda, vediamo di capire quali potrebbero essere i vantaggi nell’introdurre i
principi del web 2.0 in un’azienda e, soprattutto, quali i rischi.
Incominciamo da quest’ultimi. Un’azienda non è una democrazia: non
funzionerebbe. Non sto dicendo che le aziende siano tiranniche e che sfruttino i
loro dipendenti, ci mancherebbe! Il punto è che un’azienda è più simile a una
nave: ci deve essere un comandante e una gerarchia, regole e procedure, ruoli e
compiti da svolgere. Senza tutto ciò un’azienda non potrebbe operare
efficacemente e con efficienza. Questo tuttavia è l’antitesi di tutto ciò che
sta alla base del web 2.0, almeno in prima approssimazione. Se in un’azienda le
comunicazioni sono controllate e regolamentate, sia buona parte di quelle
interne, sia soprattutto quelle rivolte verso l’esterno, ad esempio, nel web 2.0
tutti possono interagire con tutti al di fuori di qualsiasi schema e funzione. È
evidente che questo rischia di essere disruttivo per un’impresa.
Inoltre realizzare il web 2.0 all’interno dell’azienda è una
cosa, realizzarlo fra l’azienda e il mondo esterno un’altra. Nel primo
caso sono comunque in un ambiente controllato nel quale sto creando
coscientemente delle crepe mirate ad ottenere comunque un vantaggio in termini
di capitalizzazione dell’intelligenza collettiva, nel secondo mi espongo verso
un mondo che non conosco e che non controllo e quindi devo farlo a partire da
altri presupposti, il più importante dei quali è forse quello che afferma che in
ogni caso «c’è più competenza fuori dalla mia azienda che al mio interno», anche
se sono leader di mercato.
Un altro consiglio è quello di non partire
mai dalla tecnologia, ma dalle necessità del business. Prendiamo un blog: ci
posso fare infinite cose. In fondo un blog è solo un modo per pubblicare
facilmente contenuti senza dover conoscere linguaggi specifici o usare
interfacce complesse. Ma poi? A cosa mi potrà servire? Nella blogsfera,
in Rete, ci sono blog di tutti i tipi: da quello intimo e personale - una sorta
di diario aperto - al reportage di guerra, a quello impegnato sul piano politico
e sociale e, ovviamente e immancabilmente, a quello autoreferenziale e
tecnologico.
E in un’azienda?
Due
punti di vista, abbiamo detto. Per il singolo un blog è un modo di farsi
conoscere come esperto, di poter esprimere idee che possono avere un valore per
l’azienda e quindi essergli riconosciute anche tangibilmente. Per la comunità un
blog può essere una risorsa per risparmiare tempo, per crescere, imparare,
risolvere problemi, rendere più efficienti i processi. In fondo chi sta leggendo
questo articolo lo fa perché spera che gli possa dare qualche utile spunto
nell’affrontare il dilemma «web 2.0 sì o no»? Lo stesso vale per un blog.
Entrare nella intranet aziendale, poter cercare e trovare facilmente articoli
scritti da colleghi più esperti che hanno affrontato prima di noi un certo
problema, può far risparmiare ore se non giorni di lavoro. Chi scrive, lo fa per
protagonismo e perché l’azienda non solo non lo ostacola in questo, ma lo
facilita, addirittura lo motiva. Chi legge lo fa perché comunque riuscire a
raggiungere un obiettivo vuol dire riceverne indietro un ritorno, per cui
qualsiasi strumento possa aiutare è il benvenuto. In pratica l’esperienza di chi
scrive diventa valore per chi legge ed entrambi ne hanno un beneficio.
Ovviamente questo avviene se in azienda si lavora per obiettivi
e non a ore. E siamo di nuovo al nodo della questione. Non si può
diventare veramente un’impresa 2.0 se non si cambia cultura, e cambiare non vuol
dire introdurre una piattaforma blog o wiki o installare nuovi strumenti di
collaborazione. Cambiare vuol dire rivedere processi, ruoli, flussi
operativi, la struttura stessa dell’impresa. Solo allora si potrà
pensare di sfruttare un wiki, ad esempio, per consolidare la manualistica
interna in una forma estremamente accessibile, o le reti sociali per crearsi una
sorta di help desk personale a 360° che permetta facilmente di fruire in ogni
settore aziendale dell’esperienza accumulata in altre divisioni. E questa è la
parte facile della partita. Il gioco diventa serio quando ci si porrà il
problema di usare il web 2.0 verso l’esterno, con i propri clienti, i fornitori,
la società in genere, e quindi, visto dal punto di vista aziendale, il mercato.
Allora sarà necessario costruire prima un business case molto robusto, capire
bene i meccanismi sociali che poi sono quelli che in fondo già conosciamo, se
conosciamo gli esseri umani, e solo dopo porsi il problema di come realizzarlo.
In fondo nelle aziende questo modo di ragionare esiste già: chi fa marketing,
chi si occupa di pubblicità, non ragiona solo in termini di qualità del prodotto
promozionale, sia esso una brochure o uno spot televisivo; ragiona in termini di
psicologia delle masse, di leve psicologiche, di fattori sociali. Ebbene, chi si
occuperà di web 2.0 dovrà fare lo stesso.
Come posso sostenere
la mia immagine attraverso le reti sociali? Quali
rischi corro e qual è il modo corretto di fare blogging in rete per presentare i
miei prodotti? Come posso sfruttare i contenuti prodotti dai miei stessi clienti
per migliorare la mia offerta? Come posso legare le carte fedeltà al ranking che
hanno i clienti fidelizzati all’interno della comunità virtuale? Queste sono
solo alcune delle domande alle quali bisogna essere in grado di rispondere se si
vuole utilizzare seriamente questi strumenti. Quali servizi offrire e quali
tecnologie utilizzare, è di conseguenza. Come realizzare il sito, poi, come
vestirlo, diventa un di cui.
Alla fin fine, il web 2.0 è soprattutto simbolo
di un cambiamento senza fine, che richiede che il change management diventi la
prassi e non un evento periodico ogni tot anni. Essere Enterprise 2.0 vuol dire
di fatto diventare Enterprise Beta, e in quanto all’evitare gli errori, ben
venga, purché si sia compreso che parliamo solo di quelli più eclatanti: lo
sbagliare è parte integrante del cambiamento e può sicuramente essere gestito in
modo da limitare al minimo i danni e addirittura da trasformarlo in un’occasione
di crescita. Se si accetta tutto ciò, allora, e solo allora, si è davvero
pronti.
Commenti -
Purtroppo perché le PMI possano usare efficacemente questi strumenti devono
prima entrare in una cultura di RETE e di COLLABORAZIONE ( e non sto parlando di
tecnologia ma di strategie aziendali). Purtroppo le PMI italiane non hanno
spesso questa vision e continuano a scannarsi fra loro sul territorio locale
perdendo così l’opportunità di fare massa critica per essere competitive a
livello globale. Troppe aziende familiari, senza cultura manageriale.
Tim O’Reilly propone questi esempi per allargare la vista tra web 1.0 e
2.0
Web 1.0 | Web 2.0 | |
---|---|---|
DoubleClick | —> | Google AdSense |
Ofoto | —> | Flickr |
Akamai | —> | BitTorrent |
mp3.com | —> | Napster |
Britannica Online | —> | Wikipedia |
personal websites | —> | blogging |
evite | —> | upcoming.org and EVDB |
domain name speculation | —> | search engine optimization |
page views | —> | cost per click |
screen scraping | —> | web services |
publishing | —> | participation |
content management systems | —> | wikis |
directories (taxonomy) | —> | tagging ("folksonomy") |
stickiness | —> | syndication |
da : AgoraVox -
Commenti